Secondo i giudici di legittimità, con la recente sentenza n.17183/2020, il principio di autoresponsabilità vigente nel nostro ordinamento impone ai giovani, una volta terminati gli studi, di attivarsi per assicurarsi un autonomo sostentamento, in attesa di trovare un lavoro che sia più aderente alle proprie aspirazioni.
Non è infatti ammissibile pretendere che, in loro vece, siano i genitori a doversi adattare a qualsiasi lavoro per sostentarli: per la Corte "la pienezza della scelta esistenziale personale deve pur fare i conti nel bilanciamento con le libertà e diritti altrui di pari dignità".
L’assegno di mantenimento versato ai figli dai genitori separati o divorziati, infatti, ha una funzione educativa e non assistenziale . Finiti gli studi, siano quelli liceali, la laurea triennale o la specialistica, un figlio ha il dovere di trovare un’occupazione e rendersi autonomo senza coltivare velleità incompatibili con il mutato mercato del lavoro. Con la richiamata sentenza 17183/2020 i giudici, respingendo il ricorso di una madre che contestava la scelta della Corte d’appello che aveva revocato l’assegno versato dall’ex marito in favore del figlio trentenne professore di musica precario oltre all’assegnazione della casa coniugale, affermano l’obbligo del figlio di attivarsi per cercare un lavoro qualunque per rendersi autonomo, in attesa di un impiego più aderente alle sue aspirazioni, anche perché non può pretendere che a qualsiasi lavoro si adatti soltanto, in vece sua, il genitore.
Né la mancanza di un lavoro, in alcuni momenti storici, può equivalere all’impossibilità di mantenersi da soli. La disoccupazione può riguardare, infatti, anche persone più avanti con l’età così come era avvenuto all’ex marito della ricorrente che, a sessanta anni, chiuso il negozio di ferramenta, era tornato a vivere dall’anziana madre (senza che, per questo fosse sorto a suo favore un obbligo di mantenimento da parte della genitrice). Diverso è l’obbligo alimentare che vale a vita tra congiunti ed è reciproco. Il figlio della coppia lavorava saltuariamente come supplente, con redditi modesti ma significativi: circa 20 mila euro l’anno in media, e anche la coabitazione con la madre era sporadica perché il suo lavoro lo portava in varie provincie. Per i giudici era dovere dell’ex ragazzo, ormai uomo, «ridurre le proprie ambizioni adolescenziali» cercando un modo per mantenersi. Un risultato che dipende dall’impegno speso per incrementare le supplenze o integrare le entrate con ogni opportunità disponibile.
La Cassazione, altresì, non esclude il diritto all’assegno di mantenimento solo quando la famiglia non versa in floride condizioni economiche. Anche i genitori facoltosi possono chiedere la revisione dell’assegno quando il figlio abbia compiuto la maggiore età e terminato il suo corso di studi. Se è brillante e vuole proseguire può puntare ad una borsa di studio o darsi da fare per arrotondare il magro bilancio. Per i giudici di legittimità, infatti, continuare a mantenere i figli conviventi “sedicenti” non autonomi fa scattare anche una disparità di trattamento, ingiustificata e ingiustificabile, nei confronti dei figli coetanei che si sono resi autonomi perdendo poi tale condizione: solo per i primi permane, infatti, un obbligo di mantenimento mentre i secondi possono solo puntare al diritto agli alimenti. Tutele del tutto attenuate dunque per chi si trascina stancamente negli studi per nulla proficui e lo stesso fa nella ricerca di un lavoro. «Il concetto di capacità lavorativa - si legge nella sentenza - intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato, si acquista con la maggiore età.